Arturo Martini e gli Ottolenghi ad Acqui

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Arturo Martini e gli Ottolenghi ad Acqui

ARTURO MARTINI E GLI OTTOLENGHI AD ACQUI

Alla II Biennale di Roma del 1923 Arturo Ottolenghi e Herta Wedekind incontrano Ferruccio Ferrazzi (Roma 1891 -1978) diventandone collezionisti ed affidando in seguito il progetto iconografico del mausoleo che stava per sorgere sulla collina di Monterosso. 

La conoscenza è facilitata dalla amicizia tra Herta e la moglie di Ferrazzi, Horizia Randone che aveva frequentato anni prima durante la sua permanenza a Roma. 

A seguito della visita alla Prima Quadriennale di Roma del 1931, Horizia scrive alla amica Herta segnalando la presenza in esposizione di un’opera di Arturo Martini dal titolo La Pisana, una donna giovane e sensuale addormentata al sole. In una cartolina postale inviata da Pietra Ligure il 29 marzo 1931, Martini ringrazia Ferrazzi annunciando di avere ceduto l’opera ai coniugi Ottolenghi di Acqui. 

In realtà gli Ottolenghi conoscono bene lo scultore di Vado, avendone già acquistato un gruppo di  maioliche e tre altorilievi alla Triennale di Monza dove aveva esposto la stessa Herta Wedekind. Conoscono anche La Pisana esposta per la prima volta alla Galleria Guglielmi di Torino nel 1930 e realizzata nel 1928 in pietra di Vicenza. L’opera trova ispirazione nel romanzo “Le confessioni di un italiano” di Ippollito Nievo nel quale l’eroina viene rappresentata come una giovane, sensuale, tenera, ascetica e selvatica. 

L’opera però, per stessa ammissione dello sculture, trova idea primigenia in un episodio dell’infanzia che viene descritto nei “Colloqui sulla scultura 1944/1945”. “A due anni a casa mia una stanza era stata affittata ad una prostituta. Una mattina la ragazza scende al canale per lavarsi. Alza la sottana lasciandomi la visione del deretano e del bianco delle cosce che esplode. Tutte quelle donne saranno figlie di quella immagine”. L’impressione sensuale tratta dal vero, viene dilatata dalle forme plastiche e tornite della classicità per poi lasciarsi suggestionate dalle opere di Casorati “Meriggio” e “Ragazze dormienti” presentate alla Biennale di Venezia nel 1922 e nel 1928. 

La scultura è immersa nell’atmosfera creativa del cosiddetto “Realismo magico” ed ottiene grande fortuna in considerazione anche delle molteplici versioni realizzate in diversi materiali. 

Il gesso, poi traslato in pietra da cui ha origine la prima versione de La Pisana, ha origine a Roma nel 1928 in seguito alle istanze di rivalutazione della figura di Ippolito Nievo, da parte dei trevigiani Comisso, Mazzolà, Scarpa e dello stesso Martini.

Nel 1930 Martini porta con sé il gesso presso la Villa Reale di Monza in occasione del periodo di insegnamento all’ISIA e ne modifica alcuni particolari come la resa della capigliatura e la posizione della mano sinistra. 

La Pisana si completa in senso stilistico compositivo con l’altra opera realizzata, sempre nel 1928, de Il Bevitore, di cui è complementare. Le due figure sono il risultato di una esercitazione sulla figura femminile e maschile, interpretate in posizione orizzontale e verticale e con diverse considerazioni sul rapporto tra pieno e vuoto rispetto allo spazio occupato dai corpi. 

Una versione in terraglia patinata realizzata dal gesso modificato nel 1933 circa, è visibile al Museo del Novecento di Milano.

Nel 1989, sempre dalla seconda versione del gesso, vengono tratte sei fusioni in bronzo a cura della Galleria Davvero di Milano. 

Sempre nel 1931 gli Ottolenghi si assicurano la fusione in bronzo de Il figliol prodigo opera colossale che vede la luce come modello in gesso tra il 1924 ed il 1926 in un angusto laboratorio di Vado e dopo varie vicissitudine viene fuso a Napoli nel 1928 e quindi presentato alla II Mostra del Novecento Italiano organizzata da Margherita Sarfatti nel 1929.

La statua è perfetta per essere collocata nel ricovero Ottolenghi di Acqui voluto dal Jona Ottolenghi nell’Ottocento, in soccorso degli anziani nullatenenti. 

Una fotografia scattata nel corso dell’autunno del 1931 inquadra la statua sotto al colonnato rinascimentale del ricovero, alla presenza di Arturo Ottolenghi, Arturo Martini e del giornalista critico d’arte torinese, Emilio Zanzi.

Nel Figliol prodigo, il tema del ritorno a casa dopo tanto peregrinare viene inteso dalla scultore come una metafora. Egli considera l’arte del anni Venti come il recupero dei modelli, del mestiere e delle tecniche degli antichi in netto contrasto con la folle corsa in avanti delle avanguardie di primo Novecento. I due personaggi dalle dimensioni colossali e dalle forme arcaiche riprendono oltre la statuaria classica soprattutto quella tipica del XIII secolo. L’agnizione viene svolta dal padre quasi cieco mediante l’uso delle mani che indagano il corpo estraneo riconoscendo in fine le fattezze del figlio, tanto atteso e tanto amato a cui tutto viene perdonato. 

Il primo a potere vedere l’opera quando era ancora un gesso è l’amico pittore Eso Peluzzi che così narra a Carlo De benedetti nel 1929: “Ricordo, quando lo vidi per la prima volta, che il gruppo in gesso era in centro alla stanza ed arrivava quasi fino al soffitto. Prima di entrare Martini mi aveva avvertito: vedrai una statua che ti metterà alla prova. La guardavo da ogni lato, mi avvicinavo e mi allontanavo, facevo scorre le mani sulle figure che mi parevano vive. Martini attendeva ch’io palassi con quei occhi suoi luccicanti, ma io nell’emozione non seppi pronunciare parola. Una cosa solo riuscii a pronunciare: è un capolavoro. Dal sorriso di Martini capii che aveva creduto alla mia sincerità. Aggiunsi subito, bisogno fonderlo in bronzo”. 

In effetti è lo stesso Peluzzi a contattare l’industriale di Como Antonio Balbis, per convincerlo a finanziare l’impresa. 

Sempre nel 1931 entra nella collezione Ottolenghi Il sogno, altorilievo in bronzo tratto da una terracotta che faceva parte di un trittico con Chiaro di Luna e La veglia, presentati alla Biennale di Venezia del 1932. L’opera è geniale per l’impianto realizzato in uno spazio compresso in cui si trova una fanciulla dormiente, adagiata su di un letto sotto il quale vigila un cane accucciato. La magia del racconto si concentra su di una finestra semi aperta dal quale può arrivare il vento, la notte oppure una mano che tocchi. Il sogno ha la genesi nel mistero metafisico dei Dioscuri di De Chirico e Savinio, in cui il sonno è visto come demi-mort, in cui il nostro essere sospende la veglia, e tutto può essere. 

Tra l’aprile e luglio del 1931 Arturo Martini espone alla Promotrice di Torino un’altra opera che la coppia Ottolenghi-Wedekind non esiterà a fare loro. Si tratta da La lupa ferita fusione in bronzo. Lo scultore si cimenta per la prima volta con una creatura a carponi in una posa animalesca e selvaggia. L’idea non viene desunta, come sembra per grande parte della critica, dalla “Lavandaia egizia” del Museo Archeologico di Firenze, ma per stessa ammissione di Martini dalla forma orizzontale e ondulatoria dei poggia teste egizi presenti nel libro delle Meraviglie. Trafitta e ferita da una freccia che la trapassa la lupa conserva il fascino della Chimera di Arezzo e della lupa capitolina e con essa Martini raggiunge le vette della statuaria europea per resa drammatica e pathos comunicativo.  

Come spesso capita parlando di Martini l’opera si sdoppia nella versione in terra refrattaria che l’autore dona a Massimo Bontempelli nel 1932 per la sua casa di Frascati. Martini aveva molto apprezzato la collocazione del precedente regalo di un frammento della Pisana, che Bontempelli sistema in una piccola stanza vuota rettangolare, che guarda verso la valle con Roma in lontananza. 

La lupa ferita in terra refrattaria nel 1950 viene ceduta al Middelheimmuseum di Anversa dove è ancora oggi custodita. 

Alla versione in bronzo per gli Ottolenghi sembra che un’altra versione, sempre in bronzo, venga realizzata per la propria casa di Vado. Forse questo episodio con altri che si succederanno, è alla base dei continui litigi tra i due Arturo. 

Sempre nel settembre di quel fruttuoso 1931 Martini lavora per conto degli Ottolenghi presso le cave di Crusinallo vicino a Novara, con l’intento di realizzare il pozzo con Adamo ed Eva. Lo scultore deve però desistere per la durezza del materiale ed anche per forti contrasti con i due committenti. Infatti nella prima versione Adamo ed Eva dovevano essere contrapposti e ripresi nell’intento di strappare la mela. A questo proposito Martini sviluppa in un primo momento un gesso che segue fedelmente le indicazioni. Nella versione finale però i due personaggi sono ripresi frontalmente davanti ad un albero potato al modo stilizzato di Sironi, su cui sta attorcigliato il serpente. L’opera è realizzata nella pietra più tenera di Finale ed è rifiutata  dagli Ottolenghi. Martini sembra cedere alle richieste e si reca nuovamente a Finale per eseguire una versione contrapposta di Adamo ed Eva che però non vedrà mai la luce. Lo scultore sente molto la scultura come è realizzata, in quanto risponde perfettamente ai canoni novecentisti con le due figure presentate in posizione arcaica in forma massiccia e frontale. Inoltre la superficie granulosa e sfatta della pietra di Finale rende al meglio l’aspetto di essere biblici, provenienti da un’età primordiale, assumendone la dignità di divinità terragne, idoli fecondi immersi nell’abbondanza, prima di compiere il peccato originale. 

Nel maggio del 1932 Arturo Ottolenghi ne acquista una seconda versione in conglomerato e bronzo in relazione della quale esiste una dichiarazione di Martini per cui afferma che non ne esistono ulteriori copie avendo ceduto tutti i diritti ai signori di Monterosso.

Con Il Tobiolo realizzato in gesso negli anni tra il 1932 ed il 1934 e quindi con la fusione in bronzo conseguente, Martini ritorna a plasmare secondo una forma compiuta quasi verista. Modellato più grande del reale con una adesione anatomica sorprendente, sembra liberarsi dall’impronta plastica arcaica e scenografica a cui l’autore deve la propria fortuna, per consentire alla verità di emergere pura. Solo il viso con gli occhi straniati sembra  ancorato alle visione etrusca del passato. 

E’ ispirato secondo la descrizione di Martini nei “Colloqui” alla fontana dell’Ammaniti in piazza della Signoria a Firenze. 

Esposto prima alla Galleria Milano di Milano e poi alla Biennale di Venezia sempre nel 1934 ottiene apprezzamenti da tutta la critica più influente.

L’opera doveva in origine percorrere un progetto della Herta Wedekind proveniente dal soggiorno romano del 1912. Ancora una volta Martini fa di testa sua stravolgendo la forma secondo il suo istinto libero. 

Arturo Ottolenghi lo piazza comunque al centro della fontana nel parco della Villa di Monterosso, moltiplicandone l’effetto scenografico. Ottiene  anche la versione in gesso per evitare ogni possibile riproduzione ulteriore. 

Per complicate vicissitudine avvenute in epoca moderna, l’opera attualmente visibile in loco è una copia dell’originale. 

Nel 1932 gli Ottolenghi si assicurano ancora uno straordinario capolavoro. Si tratta del Leone di Monterosso realizzato in pietra rossa Simona della Valcamonica. Martini è particolarmente fiero di questo lavoro che sembra essere desunto dal bestiario medioevale. Lo convince in particolare il colore naturale della pietra che lo rende al contempo vivo ed antico. In una lettera all’Ottolenghi descrive la statua come una chimera che ha in sé l’ispirazione del leone e di tutte le altre bestie. 

Prima del 1935 entrano nella Villa di Monterosso una versione in bronzo dei Leoni di Monterosso. Una coppia che Martini denuncia sia tratta inizialmente dalla mitologia assira, per poi piegare l’ispirazione verso la più probabile chimera di origine etrusca. 

I tre leoni vengono esposti alla II Quadriennale Roma del 1935. 

Dopo queste ultime acquisizioni si interrompe il rapporto tra Arturo Martini e gli Ottolenghi di Acqui, a causa dei dissapori nati già ai tempi di Adamo ed Eva e del Tobiolo anche se la ragione effettiva va ricercarsi nell’aspetto economico dei diritti alla riproduzione delle opere con cui probabilmente Martini aveva sempre giocato.